<% %> Infodiabetes.it - Congresso ADA 2003
 

 



June 13 - 17, 2003, New Orleans, Louisiana

In tema di nefropatia
Rudy W. Bilous, MD, FRCP
 
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Introduzione: la nefropatia è un problema di salute generale

È un dato accertato che la nefropatia diabetica sia - negli USA - la singola causa più comune d'insufficienza renale terminale,sebbene i tassi d'incidenza in Europa siano considerevolmente inferiori[1]. Le ragioni di tale discrepanza non sono chiare, ma verosimilmente riflettono una combinazione di differenti suscettibilità di popolazione verso complicanze renali e cardiovascolari, e possibili differenze di trattamento del diabete. L'incidenza del diabete sta inoltre aumentando in tutto il mondo, con la maggior parte di questo incremento che riguarda popolazioni a particolare rischio di sviluppare complicanze cardiorenali[2]. La nefropatia, quindi, è un grosso problema di salute pubblica generale.

Nel corso dell'ultima decade si è sviluppata una migliore comprensione dei meccanismi fisiopatologici che sottendono la nefropatia sperimentale, e un'esplosione nel numero dei trattamenti potenziali[3]. La maggior parte di questa ricerca è stata condotta su animali modificati geneticamente che sotto- o sovraesprimono diverse citochine e fattori di crescita. Anche la storia naturale della nefropatia negli esseri umani è stata meglio compresa, soprattutto nel diabete di tipo 2 - area di studi che in passato era stata piuttosto trascurata[4]. L'impiego della biopsia renale nella nefropatia diabetica umana ha portato a una miglior comprensione della relazione esistente tra struttura e funzione renale. Ora vi è una solida base di evidenza per interventi di prevenzione e terapia. Il simposio "New Directions in the Pathogenesis and Treatment of Nephropathy"[5] al congresso dell'ADA era quindi particolarmente puntuale.

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Glomerulosclerosi diabetica


Michael Karl, MD, PhD (University of Miami School of Medicine, Miami, Florida, USA) ha esordito proponendo un'ipotesi di sensibilità o resistenza alla glomerulosclerosi, per la quale coloro che sono resistenti vivono uno stato di equilibrio tra sintesi e degradazione della matrice extracellulare, mentre i soggetti suscettibili avrebbero uno squilibrio dovuto ad aumentata sintesi o ridotta degradazione, o a entrambe. Ha quindi sottolineato il fatto che il rene di topo possiede il terzo più alto numero di geni sensibili agli estrogeni, e che le cellule mesangiali esprimono recettori estrogenici funzionali. Nelle colture tissutali, gli estrogeni aumentano l'mRNA e i livelli di attività della metalloproteinasi 9 della matrice. I topi resistenti alla glomerulosclerosi hanno un'aumentata espressione dei recettori estrogenici, mentre gli animali suscettibili alla sclerosi ne possiedono un numero ridotto. I topi suscettibili alla sclerosi ovariectomizzati presentano un incremento della proteinuria, con una patologia glomerulare peggiore a 14 mesi rispetto ai controlli non ovariectomizzati.

Negli esseri umani si assiste a una prevalenza di nefropatia nei soggetti diabetici di tipo 1 di sesso maschile, la cui causa è ignota, e il Prof. Karl ha sottolineato il fatto che nel registro dello United States Renal Data System (USRDS) vi sia una prevalenza del sesso femminile per quanto riguarda la nefropatia terminale (end-stage renal disease [ESRD]) nell'età avanzata (e presumibilmente postmenopausale), nonostante quest'ultimo dato possa riflettere anche una minor sopravvivenza dei soggetti di sesso maschile. Non vi sono comunque dati sull'impatto della terapia ormonale sostitutiva sull'incidenza di ESRD. Il Prof. Karl ha concluso affermando che mentre è probabile che gli estrogeni possano rallentare o comunque esercitare un effetto parzialmente protettivo nei confronti della progressione della patologia, la loro assenza o carenza accelera certamente il processo. Tali osservazioni sono interessanti, ma la loro rilevanza nei confronti della patologia umana resta speculativa.

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Strategie terapeutiche nella nefropatia precoce


Giancarlo Viberti, MD, FRCP (Guy's, King's, and St. Thomas' School of Medicine, Londra, UK), ha esordito con una revisione dei dati recentemente pubblicati provenienti dall'United Kingdom Prospective Diabetes Study (UKPDS)[4] sull'evoluzione della nefropatia nel tipo 2. Sebbene i tassi di evoluzione dalla normo- alla micro-, alla macroalbuminuria e verso l'insufficienza renale siano abbastanza stabili al 2-3% per anno (e simili ai dati pubblicati riguardanti i diabetici di tipo 1), i tassi di mortalità per ognuno di questi stadi sono nettamente discrepanti, rispettivamente dell'1,4, 3,0, 4,6 e 19,2%.

Oltre a rappresentare un marker di patologia renale incipiente e progressiva, l'aumentata albuminuria è un fattore di rischio indipendente di mortalità cardiovascolare in entrambi i tipi di diabete. I pazienti con un aumento annuale maggiore dell'albuminuria (>4 mg/mmol/anno di albumin excretion rate) hanno un tasso di mortalità superiore rispetto a quelli con un tasso di variazione stabile o rallentato. I pazienti con microalbuminuria (20-200 mcg/min; 30-300 mg/die) o macroalbuminuria (>200 mcg/min; >300 mg/die) presentano un aumentato rischio di mortalità rispettivamente di 2,36 e di 4,74, che è superiore rispetto a quello associato al fattore di von Willebrand o alla proteina C-reattiva.

L'importanza della microalbuminuria come marker d'insufficienza renale incipiente è stata posta in discussione da recenti dati, che suggerirebbero che in una percentuale di pazienti che può arrivare fino al 58%, nell'arco di 6 anni, possa verificarsi una regressione spontanea (verso la normoalbuminuria o una riduzione del 50% da un biennio a quello successivo)[6]. Il Dott. Viberti ha sottolineato che la definizione di microalbuminuria in questo studio aveva un limite inferiore di 43 mg/die, e derivava dal rapporto albumina/creatinina. La definizione è importante, poiché molti studi suggeriscono attualmente che un aumento dell'albuminuria, anche se nell'ambito del cosiddetto range di normalità, <30 mg/die, si associ allo sviluppo successivo di patologia cardiorenale. Per cui una tale "regressione" può non essere equivalente a un rischio inferiore di progressione. Il rischio cumulativo di progressione verso la nefropatia clinica stabile nell'arco di 10 anni, la regressione verso la normoalbuminuria e la persistenza di microalbuminuria sono stati stimati, tramite i bracci placebo degli studi pubblicati sugli ACE-inibitori nei soggetti affetti da diabete di tipo 1, essere rispettivamente del 45, 27, e 28%[7].

Questa contraddizione potrebbe rivelarsi più apparente che reale. Aumenti dell'albuminuria possono essere determinati da cause diverse, tutte quante operanti nello stesso paziente in tempi differenti. Ad esempio, il riassorbimento tubulare dell'albumina può variare con il flusso urinario e con la presenza di patologia tubulo-interstiziale. Variazioni nell'emodinamica glomerulare si rifletteranno nel passaggio dell'albumina attraverso la membrana basale capillare. Modificazioni patologiche nella membrana basale glomerulare possono alterare la selettività di permeabilità delle macromolecole. Per quanto la microalbuminuria rappresenti un'espressione imperfetta della nefropatia, rimane un indice estremamente valido nell'identificazione dei soggetti a rischio, e deve continuare a essere una parte importante dello screening delle complicanze.

Il Dott. Viberti ha compiuto una retrospettiva sull'evidenza di efficacia della terapia. In prevenzione primaria, sia il Diabetes Control and Complication Trial (DCCT) sia lo UK Prospective Diabetes Study (UKPDS) hanno dimostrato l'importanza di un attento compenso glicemico. John Lachin, ScD (USA), in precedenza, aveva presentato l'aggiornamento di 8 anni del follow-up del DCCT, lo studio Epidemiology of Diabetes Interventions and Complications (EDIC). I pazienti provenienti dal braccio in trattamento intensivo del DCCT avevano un'incidenza di nefropatia, nell'arco di 8 anni, di appena il 2%. Soprattutto, negli stessi pazienti vi era una riduzione del rischio relativo di progressione dalla micro- alla macroalbuminuria superiore all'80%. Questi dati avevano spinto Lachin ad affermare che un anno di iperglicemia sembra provocare la maggior parte del danno in una fase precoce di malattia.

In prevenzione secondaria pare che l'importanza di un miglior controllo glicemico sia scarsa o nulla. Tuttavia, gli ACE-inibitori nel diabete di tipo 1 e gli antagonisti del recettore dell'angiotensina di tipo II (ARB) nel diabete di tipo 2 hanno dimostrato in modo conclusivo di ridurre il rischio di progressione verso la nefropatia conclamata di una percentuale compresa tra il 60 e il 70%[8,9]. Questo dato è indipendente dall'età, dal sesso, dalla pressione arteriosa e dalla durata di malattia diabetica.

Sono state recensite le nuove associazioni di ACE-inibitori e ARB, ACE-inibitori e indapamide, e ACE-inibitori e spironolattone. Per quanto tali associazioni siano promettenti in termini di riduzione pressoria e dell'albuminuria, la loro efficacia non è ancora stata dimostrata al punto da raccomandarne un impiego di routine. È necessario porre particolare attenzione al monitoraggio della potassiemia nei pazienti in trattamento con tali composti.

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Nuove prospettive


Mark E. Cooper, MD, PhD (Baker Heart Research Institute, Melbourne, Australia), ha proseguito descrivendo l'interazione tra i fattori metabolici quali l'iperglicemia, gli AGE (advanced glycation end products) e lo stress ossidativo, e le modificazioni nell'emodinamica, quali l'aumento dei flussi e della pressione capillare glomerulare e l'attivazione del sistema renina-angiotensina nell'induzione dell'espressione di fattori di crescita e citochine, che conducono a un eccesso di accumulo di matrice. Ha rievocato la "brutta compagnia" di ipertensione e iperglicemia, descritta per la prima volta più di 15 anni orsono, da Harry Keen.

Il Prof. Cooper ha mostrato come la classica comprensione del sistema renina-angiotensina debba essere modificata alla luce delle recenti scoperte, come quella dell'enzima ACE 2, che converte l'angiotensina I in ang. 1-9, a sua volta convertita in ang. 1-7, con possibili effetti biologici. Anche il ruolo del recettore di tipo 2 dell'AII negli esseri umani comincia a essere più chiaro, rivelandosi probabilmente imprecisa la precedente visione semplicistica secondo la quale mediava effetti opposti a carico del recettore di tipo 1. Di conseguenza, sembra più solido il razionale di un'associazione tra ACE-inibitori e antagonisti del recettore AII. Analogamente, ora vi è un razionale per l'impiego di ACE-inibitori, ARB e antagonisti dell'aldosterone come lo spironolattone.

Un nuovo antagonista dell'aldosterone, l'eplerenone, è stato testato su animali diabetici, confrontandolo con l'enalapril da solo o in associazione con questo, rilevando, rispettivamente, una riduzione del rapporto albumina/creatinina del 62% vs. 42% vs. 74%. Sono in via di sviluppo nuove molecole in grado di inibire gli enzimi coinvolti nella produzione di altri peptici vasoattivi. Fra questi, l'agente maggiormente studiato nell'uomo è l'inibitore associato dell'ACE e dell'endopeptidasi omapatrilat, che sembra esercitare fortissimi effetti sull'albuminuria e la pressione arteriosa. Il suo impiego resta limitato dal problema dell'angioedema.

Il Prof. Cooper si è quindi focalizzato sul ruolo degli AGE nello sviluppo della nefropatia. Fondamentalmente, il glucosio reagisce con le proteine formando una base di Schiff, la quale subisce un riarrangiamento chimico (prodotto di Amadori). Tali reazioni sono teoricamente reversibili. Successivamente, le proteine glicate si stabilizzano negli AGE, che possono interagire con recettori specifici stimolando la produzione di citochine, determinando conseguentemente aterosclerosi e accumulo di matrice. Farmaci come l'aminoguanidina prevengono la formazione degli AGE [3]. Vi sono anche molecole che demoliscono i crosslink che stabilizzano gli AGE, così come inibitori solubili del recettore degli AGE. Tutti questi composti hanno dimostrato di poter ridurre, in modelli sperimentali animali, la formazione di matrice in vitro e in vivo. I risultati nell'uomo sono preliminari. Gli effetti collaterali dell'aminoguanidina ne hanno limitato l'impiego a lungo termine.

Concludendo, il Prof. Cooper ha menzionato gli effetti dell'inibizione della PKC beta nella nefropatia sperimentale, ma ha sottolineato che non sono disponibili dati pubblicati sugli esseri umani. La ricerca sta attivamente occupandosi anche della terapia ipolipemizzante e degli antiossidanti.

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Nefropatia terminale (ESRD)


L'ultima presentazione è stata quella di Talat Ikizler, MD (Vanderbilt University Medical Center, Nashville, Tennessee, USA), il quale ci ha ricordato gli ultimi dati dell'USRDS, che dimostrano come l'incidenza di ESRD dovuta al diabete continui a crescere, e nel 2000 era superiore a 25.000 persone/anno[10]. Nel 2002, i costi legati alla nefropatia terminale diabetica hanno raggiunto la sbalorditiva cifra di 16,5 miliardi di dollari US. Il NHANES III ha segnalato che 2,5 milioni di persone negli Stati Uniti avevano una creatininemia superiore a 1,7 mg/dl, e 800.000 una creatininemia >2 mg/dl. Ha nuovamente sottolineato i dati di mortalità dell'UKPDS presentando i risultati dell'USRDS,
riassunti nella tabella.

Tabella. Dati dell'USRDS sulla ESRD e sui tassi di mortalità

  No DM/No IRC DM/No IRC No DM/IRC DM/IRC
Morte 9% 15% 25% 29%
ESRD     2% 6%

IRC, insufficienza renale cronica; DM, diabete mellito; ESRD, nefropatia terminale (end-stage renal disease)

Il Dott. Ikizler ha anche descritto le scarse prospettive dei soggetti diabetici in terapia sostitutiva renale. Nel 1988, la mortalità nel primo anno dei pazienti in dialisi era del 30%, e questo dato ha subito solamente una modesta riduzione al 21% nel 1997. La stragrande maggioranza dei decessi era legata a patologia cardiovascolare, con un'incidenza di eventi cardiovascolari maggiori compresa tra l'8 e il 10% per anno, nei pazienti con ESRD. La mortalità annuale dei soggetti di età compresa tra 25 e 34 anni in dialisi è peggiore di quella della popolazione generale con più di 85 anni.

I fattori di rischio della patologia cardiovascolare sono sia quelli soliti (ipertensione, dislipidemia, iperglicemia, fumo, sesso maschile), sia quelli specifici della ESRD. Questi ultimi comprendono l'ipertrofia ventricolare sinistra (IVS), l'anemia (che contribuisce allo sviluppo di IVS), l'iperfosfatemia, l'aumento dei marker di flogosi, come la proteina C-reattiva, e la malnutrizione (che può indurre anch'essa aumento degli indici di flogosi). Sono stati sottolineati i legami tra molti di questi fattori e un'accelerata aterosclerosi, ma manca l'evidenza di efficacia delle strategie atte a ridurli. In particolare, i livelli della proteina C-reattiva restano elevati 12 mesi dopo l'inizio della dialisi.

Per quanto riguarda i fattori di rischio tradizionali, deprime ancora l'evidenza che i pazienti arrivino alla nefropatia avanzata con dosaggi subottimali di farmaci di provata efficacia. Ciò è particolarmente vero per l'ipertensione arteriosa e la dislipidemia, ma anche l'utilizzo dell'aspirina è inadeguato. Nonostante le indicazioni delle linee-guida internazionali, più del 65% dei pazienti iniziano la dialisi con un ematocrito <30%.

Quali conclusioni si possono trarre da questi studi? Un'incredibile quota di ricerca sperimentale è rivolta alla comprensione dei meccanismi fisiopatologici della nefropatia, e tale ricerca condurrà allo sviluppo di nuove strategie di trattamento, sia con farmaci attualmente disponibili, sia con altri nuovi. Le prospettive per i pazienti con ESDR stabilizzata e diabete restano modeste, ma questo deriva in parte dall'inadeguato impiego di terapie di provata efficacia. Lo studio Steno 2 ha dimostrato l'efficacia di un approccio multifattoriale ai fattori di rischio cardiovascolare [11]. La sfida per i diabetologi è quella di implementare adeguatamente i trattamenti che già sappiamo essere efficaci, nell'attesa di nuovi sviluppi.

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Bibliografia di riferimento

1. Bilous RW. Evolution world-wide of renal replacement therapy in diabetes. In : Mogensen CE, ed. The Kidney and Hypertension in Diabetes Mellitus, 5th ed. Boston, Mass: Kluwer Academic Publishers; 2000.
2. Amos AF, McCarty DJ, Zimmet P. The rising global burden of diabetes and its complications. Diabetic Med. 1997;14(suppl 5) :S7-85
3. Cooper ME. Interaction of metabolic and haemodynamic factors in mediating experimental diabetic nephropathy. Diabetologia. 2001;44:1957-1972. Abstract
4. Adler AI, Stevens RJ, Manley SE, Bilous RW, Cull CA, Holman RR. Development and progression of nephropathy in type 2 diabetes: the United Kingdom Prospective Diabetes Study (UKPDS 64). Kidney Int. 2003;63:225-232. Abstract
5. Karl M, Viberti G, Cooper M, Ikizler T. Symposium: New directions in the pathogenesis and treatment of nephropathy. Program and abstracts of the 63rd Scientific Sessions of the American Diabetes Association; June 13-17, 2003; New Orleans, Louisiana.
6. Perkins BA, Ficociello LH, Silva KH, Finkelstein DM, Warram JH, Krolewski AJ. Regression of microalbuminuria in type 1 diabetes. N Engl J Med. 2003;348:2285-2293. Abstract
7. Parving H-H, Chaturvedi N, Viberti GC, Mogensen CE. Does microalbuminuria predict diabetic nephropathy? Diabetes Care. 2002; 25:406-407
8. The ACE inhibitors in diabetic nephropathy trials group. Should all patients with type 1 diabetes and microalbuminuria receive angiotensin-converting enzyme inhibitors? A meta analysis of individual patient data. Ann Intern Med. 2001;134:370-379. Abstract
9. Parving H-H, Lehnert H, Brochner-Mortensen J, et al. The effect of irbesartan on the development of diabetic nephropathy in patients with type 2 diabetes. N Engl J Med. 2001;345:870-878. Abstract
10. United States Renal Data System 2002 - Annual data report. Chapter 9: Survival, mortality and causes of death. National Institutes of Health, Bethesda, Maryland, pp 152-164.
11. Gaede P, Vedel P, Larsen N, Jensen GVH, Parving H-H, Pedersen O. Multi-factorial intervention and cardiovascular disease in patients with type 2 diabetes. N Engl J Med. 2003; 348:383-393. Abstract

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