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Introduzione: la
nefropatia è un problema di salute
generale
È un dato accertato che la
nefropatia diabetica sia - negli USA
- la singola causa più comune
d'insufficienza renale terminale,sebbene
i tassi d'incidenza in Europa siano
considerevolmente inferiori[1].
Le ragioni di tale discrepanza non
sono chiare, ma verosimilmente riflettono
una combinazione di differenti suscettibilità
di popolazione verso complicanze renali
e cardiovascolari, e possibili differenze
di trattamento del diabete. L'incidenza
del diabete sta inoltre aumentando
in tutto il mondo, con la maggior
parte di questo incremento che riguarda
popolazioni a particolare rischio
di sviluppare complicanze cardiorenali[2].
La nefropatia, quindi, è un
grosso problema di salute pubblica
generale.
Nel corso dell'ultima decade si è
sviluppata una migliore comprensione
dei meccanismi fisiopatologici che
sottendono la nefropatia sperimentale,
e un'esplosione nel numero dei trattamenti
potenziali[3].
La maggior parte di questa ricerca
è stata condotta su animali
modificati geneticamente che sotto-
o sovraesprimono diverse citochine
e fattori di crescita. Anche la storia
naturale della nefropatia negli esseri
umani è stata meglio compresa,
soprattutto nel diabete di tipo 2
- area di studi che in passato era
stata piuttosto trascurata[4].
L'impiego della biopsia renale nella
nefropatia diabetica umana ha portato
a una miglior comprensione della relazione
esistente tra struttura e funzione
renale. Ora vi è una solida
base di evidenza per interventi di
prevenzione e terapia. Il simposio
"New Directions in the Pathogenesis
and Treatment of Nephropathy"[5]
al congresso dell'ADA era quindi particolarmente
puntuale.
Glomerulosclerosi diabetica
Michael Karl, MD, PhD (University
of Miami School of Medicine, Miami,
Florida, USA) ha esordito proponendo
un'ipotesi di sensibilità o
resistenza alla glomerulosclerosi,
per la quale coloro che sono resistenti
vivono uno stato di equilibrio tra
sintesi e degradazione della matrice
extracellulare, mentre i soggetti
suscettibili avrebbero uno squilibrio
dovuto ad aumentata sintesi o ridotta
degradazione, o a entrambe. Ha quindi
sottolineato il fatto che il rene
di topo possiede il terzo più
alto numero di geni sensibili agli
estrogeni, e che le cellule mesangiali
esprimono recettori estrogenici funzionali.
Nelle colture tissutali, gli estrogeni
aumentano l'mRNA e i livelli di attività
della metalloproteinasi 9 della matrice.
I topi resistenti alla glomerulosclerosi
hanno un'aumentata espressione dei
recettori estrogenici, mentre gli
animali suscettibili alla sclerosi
ne possiedono un numero ridotto. I
topi suscettibili alla sclerosi ovariectomizzati
presentano un incremento della proteinuria,
con una patologia glomerulare peggiore
a 14 mesi rispetto ai controlli non
ovariectomizzati.
Negli esseri umani si assiste a una
prevalenza di nefropatia nei soggetti
diabetici di tipo 1 di sesso maschile,
la cui causa è ignota, e il
Prof. Karl ha sottolineato il fatto
che nel registro dello United States
Renal Data System (USRDS) vi sia una
prevalenza del sesso femminile per
quanto riguarda la nefropatia terminale
(end-stage renal disease [ESRD]) nell'età
avanzata (e presumibilmente postmenopausale),
nonostante quest'ultimo dato possa
riflettere anche una minor sopravvivenza
dei soggetti di sesso maschile. Non
vi sono comunque dati sull'impatto
della terapia ormonale sostitutiva
sull'incidenza di ESRD. Il Prof. Karl
ha concluso affermando che mentre
è probabile che gli estrogeni
possano rallentare o comunque esercitare
un effetto parzialmente protettivo
nei confronti della progressione della
patologia, la loro assenza o carenza
accelera certamente il processo. Tali
osservazioni sono interessanti, ma
la loro rilevanza nei confronti della
patologia umana resta speculativa.
Strategie terapeutiche nella nefropatia
precoce
Giancarlo Viberti, MD, FRCP (Guy's,
King's, and St. Thomas' School of
Medicine, Londra, UK), ha esordito
con una revisione dei dati recentemente
pubblicati provenienti dall'United
Kingdom Prospective Diabetes Study
(UKPDS)[4]
sull'evoluzione della nefropatia nel
tipo 2. Sebbene i tassi di evoluzione
dalla normo- alla micro-, alla macroalbuminuria
e verso l'insufficienza renale siano
abbastanza stabili al 2-3% per anno
(e simili ai dati pubblicati riguardanti
i diabetici di tipo 1), i tassi di
mortalità per ognuno di questi
stadi sono nettamente discrepanti,
rispettivamente dell'1,4, 3,0, 4,6
e 19,2%.
Oltre a rappresentare un marker di
patologia renale incipiente e progressiva,
l'aumentata albuminuria è un
fattore di rischio indipendente di
mortalità cardiovascolare in
entrambi i tipi di diabete. I pazienti
con un aumento annuale maggiore dell'albuminuria
(>4 mg/mmol/anno di albumin excretion
rate) hanno un tasso di mortalità
superiore rispetto a quelli con un
tasso di variazione stabile o rallentato.
I pazienti con microalbuminuria (20-200
mcg/min; 30-300 mg/die) o macroalbuminuria
(>200 mcg/min; >300 mg/die)
presentano un aumentato rischio di
mortalità rispettivamente di
2,36 e di 4,74, che è superiore
rispetto a quello associato al fattore
di von Willebrand o alla proteina
C-reattiva.
L'importanza della microalbuminuria
come marker d'insufficienza renale
incipiente è stata posta in
discussione da recenti dati, che suggerirebbero
che in una percentuale di pazienti
che può arrivare fino al 58%,
nell'arco di 6 anni, possa verificarsi
una regressione spontanea (verso la
normoalbuminuria o una riduzione del
50% da un biennio a quello successivo)[6].
Il Dott. Viberti ha sottolineato che
la definizione di microalbuminuria
in questo studio aveva un limite inferiore
di 43 mg/die, e derivava dal rapporto
albumina/creatinina. La definizione
è importante, poiché
molti studi suggeriscono attualmente
che un aumento dell'albuminuria, anche
se nell'ambito del cosiddetto range
di normalità, <30 mg/die,
si associ allo sviluppo successivo
di patologia cardiorenale. Per cui
una tale "regressione" può
non essere equivalente a un rischio
inferiore di progressione. Il rischio
cumulativo di progressione verso la
nefropatia clinica stabile nell'arco
di 10 anni, la regressione verso la
normoalbuminuria e la persistenza
di microalbuminuria sono stati stimati,
tramite i bracci placebo degli studi
pubblicati sugli ACE-inibitori nei
soggetti affetti da diabete di tipo
1, essere rispettivamente del 45,
27, e 28%[7].
Questa contraddizione potrebbe rivelarsi
più apparente che reale. Aumenti
dell'albuminuria possono essere determinati
da cause diverse, tutte quante operanti
nello stesso paziente in tempi differenti.
Ad esempio, il riassorbimento tubulare
dell'albumina può variare con
il flusso urinario e con la presenza
di patologia tubulo-interstiziale.
Variazioni nell'emodinamica glomerulare
si rifletteranno nel passaggio dell'albumina
attraverso la membrana basale capillare.
Modificazioni patologiche nella membrana
basale glomerulare possono alterare
la selettività di permeabilità
delle macromolecole. Per quanto la
microalbuminuria rappresenti un'espressione
imperfetta della nefropatia, rimane
un indice estremamente valido nell'identificazione
dei soggetti a rischio, e deve continuare
a essere una parte importante dello
screening delle complicanze.
Il Dott. Viberti ha compiuto una retrospettiva
sull'evidenza di efficacia della terapia.
In prevenzione primaria, sia il Diabetes
Control and Complication Trial (DCCT)
sia lo UK Prospective Diabetes Study
(UKPDS) hanno dimostrato l'importanza
di un attento compenso glicemico.
John Lachin, ScD (USA), in precedenza,
aveva presentato l'aggiornamento di
8 anni del follow-up del DCCT, lo
studio Epidemiology of Diabetes Interventions
and Complications (EDIC). I pazienti
provenienti dal braccio in trattamento
intensivo del DCCT avevano un'incidenza
di nefropatia, nell'arco di 8 anni,
di appena il 2%. Soprattutto, negli
stessi pazienti vi era una riduzione
del rischio relativo di progressione
dalla micro- alla macroalbuminuria
superiore all'80%. Questi dati avevano
spinto Lachin ad affermare che un
anno di iperglicemia sembra provocare
la maggior parte del danno in una
fase precoce di malattia.
In prevenzione secondaria pare che
l'importanza di un miglior controllo
glicemico sia scarsa o nulla. Tuttavia,
gli ACE-inibitori nel diabete di tipo
1 e gli antagonisti del recettore
dell'angiotensina di tipo II (ARB)
nel diabete di tipo 2 hanno dimostrato
in modo conclusivo di ridurre il rischio
di progressione verso la nefropatia
conclamata di una percentuale compresa
tra il 60 e il 70%[8,9].
Questo dato è indipendente
dall'età, dal sesso, dalla
pressione arteriosa e dalla durata
di malattia diabetica.
Sono state recensite le nuove associazioni
di ACE-inibitori e ARB, ACE-inibitori
e indapamide, e ACE-inibitori e spironolattone.
Per quanto tali associazioni siano
promettenti in termini di riduzione
pressoria e dell'albuminuria, la loro
efficacia non è ancora stata
dimostrata al punto da raccomandarne
un impiego di routine. È necessario
porre particolare attenzione al monitoraggio
della potassiemia nei pazienti in
trattamento con tali composti.
Nuove prospettive
Mark E. Cooper, MD, PhD (Baker Heart
Research Institute, Melbourne, Australia),
ha proseguito descrivendo l'interazione
tra i fattori metabolici quali l'iperglicemia,
gli AGE (advanced glycation end products)
e lo stress ossidativo, e le modificazioni
nell'emodinamica, quali l'aumento
dei flussi e della pressione capillare
glomerulare e l'attivazione del sistema
renina-angiotensina nell'induzione
dell'espressione di fattori di crescita
e citochine, che conducono a un eccesso
di accumulo di matrice. Ha rievocato
la "brutta compagnia" di
ipertensione e iperglicemia, descritta
per la prima volta più di 15
anni orsono, da Harry Keen.
Il Prof. Cooper ha mostrato come la
classica comprensione del sistema
renina-angiotensina debba essere modificata
alla luce delle recenti scoperte,
come quella dell'enzima ACE 2, che
converte l'angiotensina I in ang.
1-9, a sua volta convertita in ang.
1-7, con possibili effetti biologici.
Anche il ruolo del recettore di tipo
2 dell'AII negli esseri umani comincia
a essere più chiaro, rivelandosi
probabilmente imprecisa la precedente
visione semplicistica secondo la quale
mediava effetti opposti a carico del
recettore di tipo 1. Di conseguenza,
sembra più solido il razionale
di un'associazione tra ACE-inibitori
e antagonisti del recettore AII. Analogamente,
ora vi è un razionale per l'impiego
di ACE-inibitori, ARB e antagonisti
dell'aldosterone come lo spironolattone.
Un nuovo antagonista dell'aldosterone,
l'eplerenone, è stato testato
su animali diabetici, confrontandolo
con l'enalapril da solo o in associazione
con questo, rilevando, rispettivamente,
una riduzione del rapporto albumina/creatinina
del 62% vs. 42% vs. 74%. Sono in via
di sviluppo nuove molecole in grado
di inibire gli enzimi coinvolti nella
produzione di altri peptici vasoattivi.
Fra questi, l'agente maggiormente
studiato nell'uomo è l'inibitore
associato dell'ACE e dell'endopeptidasi
omapatrilat, che sembra esercitare
fortissimi effetti sull'albuminuria
e la pressione arteriosa. Il suo impiego
resta limitato dal problema dell'angioedema.
Il Prof. Cooper si è quindi
focalizzato sul ruolo degli AGE nello
sviluppo della nefropatia. Fondamentalmente,
il glucosio reagisce con le proteine
formando una base di Schiff, la quale
subisce un riarrangiamento chimico
(prodotto di Amadori). Tali reazioni
sono teoricamente reversibili. Successivamente,
le proteine glicate si stabilizzano
negli AGE, che possono interagire
con recettori specifici stimolando
la produzione di citochine, determinando
conseguentemente aterosclerosi e accumulo
di matrice. Farmaci come l'aminoguanidina
prevengono la formazione degli AGE
[3].
Vi sono anche molecole che demoliscono
i crosslink che stabilizzano gli AGE,
così come inibitori solubili
del recettore degli AGE. Tutti questi
composti hanno dimostrato di poter
ridurre, in modelli sperimentali animali,
la formazione di matrice in vitro
e in vivo. I risultati nell'uomo sono
preliminari. Gli effetti collaterali
dell'aminoguanidina ne hanno limitato
l'impiego a lungo termine.
Concludendo, il Prof. Cooper ha menzionato
gli effetti dell'inibizione della
PKC beta nella nefropatia sperimentale,
ma ha sottolineato che non sono disponibili
dati pubblicati sugli esseri umani.
La ricerca sta attivamente occupandosi
anche della terapia ipolipemizzante
e degli antiossidanti.
Nefropatia terminale (ESRD)
L'ultima presentazione è stata
quella di Talat Ikizler, MD (Vanderbilt
University Medical Center, Nashville,
Tennessee, USA), il quale ci ha ricordato
gli ultimi dati dell'USRDS, che dimostrano
come l'incidenza di ESRD dovuta al
diabete continui a crescere, e nel
2000 era superiore a 25.000 persone/anno[10].
Nel 2002, i costi legati alla nefropatia
terminale diabetica hanno raggiunto
la sbalorditiva cifra di 16,5 miliardi
di dollari US. Il NHANES III ha segnalato
che 2,5 milioni di persone negli Stati
Uniti avevano una creatininemia superiore
a 1,7 mg/dl, e 800.000 una creatininemia
>2 mg/dl. Ha nuovamente sottolineato
i dati di mortalità dell'UKPDS
presentando i risultati dell'USRDS,
riassunti nella tabella.
Tabella. Dati dell'USRDS sulla ESRD
e sui tassi di mortalità
|
No DM/No
IRC |
DM/No IRC |
No DM/IRC |
DM/IRC |
Morte |
9% |
15% |
25% |
29% |
ESRD |
|
|
2% |
6% |
IRC, insufficienza renale
cronica; DM, diabete mellito;
ESRD, nefropatia terminale
(end-stage renal disease) |
|
Il Dott. Ikizler ha
anche descritto le scarse prospettive
dei soggetti diabetici in terapia
sostitutiva renale. Nel 1988, la mortalità
nel primo anno dei pazienti in dialisi
era del 30%, e questo dato ha subito
solamente una modesta riduzione al
21% nel 1997. La stragrande maggioranza
dei decessi era legata a patologia
cardiovascolare, con un'incidenza
di eventi cardiovascolari maggiori
compresa tra l'8 e il 10% per anno,
nei pazienti con ESRD. La mortalità
annuale dei soggetti di età
compresa tra 25 e 34 anni in dialisi
è peggiore di quella della
popolazione generale con più
di 85 anni.
I fattori di rischio della patologia
cardiovascolare sono sia quelli soliti
(ipertensione, dislipidemia, iperglicemia,
fumo, sesso maschile), sia quelli
specifici della ESRD. Questi ultimi
comprendono l'ipertrofia ventricolare
sinistra (IVS), l'anemia (che contribuisce
allo sviluppo di IVS), l'iperfosfatemia,
l'aumento dei marker di flogosi, come
la proteina C-reattiva, e la malnutrizione
(che può indurre anch'essa
aumento degli indici di flogosi).
Sono stati sottolineati i legami tra
molti di questi fattori e un'accelerata
aterosclerosi, ma manca l'evidenza
di efficacia delle strategie atte
a ridurli. In particolare, i livelli
della proteina C-reattiva restano
elevati 12 mesi dopo l'inizio della
dialisi.
Per quanto riguarda i fattori di rischio
tradizionali, deprime ancora l'evidenza
che i pazienti arrivino alla nefropatia
avanzata con dosaggi subottimali di
farmaci di provata efficacia. Ciò
è particolarmente vero per
l'ipertensione arteriosa e la dislipidemia,
ma anche l'utilizzo dell'aspirina
è inadeguato. Nonostante le
indicazioni delle linee-guida internazionali,
più del 65% dei pazienti iniziano
la dialisi con un ematocrito <30%.
Quali conclusioni si possono trarre
da questi studi? Un'incredibile quota
di ricerca sperimentale è rivolta
alla comprensione dei meccanismi fisiopatologici
della nefropatia, e tale ricerca condurrà
allo sviluppo di nuove strategie di
trattamento, sia con farmaci attualmente
disponibili, sia con altri nuovi.
Le prospettive per i pazienti con
ESDR stabilizzata e diabete restano
modeste, ma questo deriva in parte
dall'inadeguato impiego di terapie
di provata efficacia. Lo studio Steno
2 ha dimostrato l'efficacia di un
approccio multifattoriale ai fattori
di rischio cardiovascolare
[11]. La sfida per i diabetologi
è quella di implementare adeguatamente
i trattamenti che già sappiamo
essere efficaci, nell'attesa di nuovi
sviluppi.
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