<% %> Infodiabetes.it - Congresso ADA 2003
40th Annual Meeting of the European Association for the Study of Diabetes (EASD)
Munich, Germany, 5-9 September 2004

Joint PSAD & DESG Symposium

Psychosocial aspects and education/self-management in clinical diabetes care
Luca Richiardi

Sintesi
Anche quest’anno è stato dato un giusto rilievo ai problemi psicosociali, agli aspetti educazionali e di autocontrollo della terapia clinica del diabete.
Nel presentare le relazioni del simposio, non seguiamo l’ordine della presentazione delle relazioni bensì un ordine che segue un filo conduttore che lega le relazioni stesse e che abbraccia quei grossi temi con i quali quotidianamente si confronta il diabetologo clinico.

Diabete e fattori comportamentali
L’inquadramento generale del problema viene affrontato dal Prof. Frank Snoek con la relazione:
“Prevention of Type 2 diabetes by changes of behaviour”.

Da molto tempo il diabete tipo 2 è stato correlato a fattori comportamentali come il sovrappeso, abitudini sedentarie ed errate condotte alimentari. Basandosi quindi sull’evidenza di importanti studi di prevenzione possiamo oggi concludere che interventi efficaci volti a modificare stili di vita non corretti, possono prevenire o ritardare la progressione a diabete tipo 2 in gruppi di popolazioni ad alto rischio come soggetti in sovrappeso con alterata tolleranza al glucosio. Per di più è risultato evidente che gli interventi sullo stile di vita si sono dimostrati più efficaci dei farmaci nel ridurre l’incidenza di diabete tipo 2. Questa maggior efficacia è oltretutto risultata essere indipendente dal genere di farmaco usato o della etnia considerata.
Però il come tradurre questi incoraggianti evidenze nel mondo reale della pratica quotidiana, risulta essere ben altro problema.

In questo contesto risulta essenziale capire quali siano i “mediatori” o gli ostacoli al raggiungimento di una stabile modificazione degli stili di vita erronei. Peraltro una revisione dei trial di intervento che avevano dimostrato l’efficacia nel modificare gli stili di vita ha evidenziato che questa efficacia non pare essere relazionata ai contenuti o all’intensità del trattamento, bensì alla struttura del processo di modifica in termini sociali e cognitivi focalizzati ai problemi motivazionali ed agli ostacoli al cambiamento soprattutto nei confronti della dieta o dell’esercizio fisico.

L’interazione medico-paziente
Una prima risposta a questi problemi sollevati la possiamo trovare nella seconda relazione volta ad analizzare l’interazione medico-paziente e di come poterla utilizzare positivamente, presentata dal Dott. Andrew Brooks: “Concordance and Empowerment: issues in diabetes care and education”.

Si tratta di una presentazione dei vari modelli di approccio all’aspetto “relazione medico-paziente”, partendo da una considerazione tanto sconfortante quanto vera: Tutte le figure professionali che lavorano con i pazienti diabetici tentano in ogni modo ed in continuazione, di modificare i loro comportamenti per ottenere un pieno effetto del trattamento sia in termini di risultati a breve che lungo termine. È d’altra parte fatto costante, quasi rappresenti un tratto normale del comportamento umano, quello di non conformarsi all’insieme di istruzioni, a volte complesse, che vengono date al paziente. Tutto ciò porta al mancato raggiungimento di tutti quei benefici, potenzialmente possibili della terapia.

Si applica istintivamente il modello della compliance con il quale si tenta di dirigere il paziente fornendogli delle informazioni che peraltro questi non ha nemmeno richiesto.

Si tratta di un modello asimmetrico ove il curante gioca un ruolo attivo e direttivo e il paziente quello di passivo esecutore. Modello valido per le patologie acute ma che non soddisfa le esigenze delle malattie di lunga durata.

Una evoluzione di questo modello è rappresentato da quello della concordanza, che implica un diverso bilanciamento del rapporto fra curante e paziente, che prevede una condivisione delle informazioni sulla malattia, una programmazione comune degli obiettivi con impegni precisi per entrambe le parti. In questo caso il paziente diventa un partner nella cura della malattia e potenzialmente si pone in un atteggiamento di collaborazione. Si presuppone però, che per la piena applicazione di questo modello il paziente abbia accettato la malattia e che si sia venuta a creare un’atmosfera di armonia fra curante e paziente.

Da ultimo il modello più ambizioso è rappresentato da quello dell’empowerment. In questo caso il paziente viene sollecitato dal curante ad individuare lui stesso degli obiettivi realistici del proprio trattamento in una sorta di auto-motivazione basata su di un approccio centrato sul problem-solving.

In questo caso il paziente diventa attore e gestore diretto della propria malattia. Tale modello richiede però un progressivo addestramento del paziente a sviluppare abilità e capacità nuove. Anche il curante deve imparare a saper gestire le scelte del paziente: infatti questi può effettuare delle scelte corrette cioè in linea con quanto il Curante pensa sia il meglio per lui e queste vanno rinforzate (empowerment positivo), ovvero può effettuare scelte sbagliate ed in questo caso è il curante che deve sviluppare l’abilità di riuscire ad orientare il paziente verso una gestione positiva dell’errore (empowerment negativo).

In conclusione, secondo l’Autore, il modello della compliance rimarrà forse la più comune e rudimentale forma di comunicazione curante-paziente; quella della concordanza implica una reale partnership con il paziente e una pianificazione del programma terapeutico accettato e condiviso dalle parti. Da ultimo il modello dell’empowerment rappresenta la forma più attiva da parte del paziente e forse la più impegnativa da parte del curante.

Non necessariamente però questi modelli debbono rappresentare una scelta di rapporto curante-paziente da effettuare caso per caso o secondo la naturale indole del curante. Possono rappresentare altresì una evoluzione del rapporto secondo le esigenze espresse esplicitamente od implicitamente dal paziente, adattandosi anche alle diverse fasi di evoluzione dell’accettazione della propria malattia. L’importante è che i curanti siano consci dell’esistenza di questi meccanismi e cerchino, attraverso la valorizzazione del modello della concordanza e di quello dell’empowerment, di migliorare la loro comprensione dei comportamenti dei loro pazienti e quindi di poter migliorare i risultati della cura e della qualità di vita delle persone affette da diabete.

Lo studio DAWN
Dopo queste riflessioni e suggerimenti sarebbe bene valutare anche lo scenario, il contesto socioculturale in cui ci muoviamo quotidianamente e valutare gli atteggiamenti, le aspettative e i bisogni nostri e quelli dei nostri pazienti (la realtà in cui operiamo).

A questo ha provveduto il Prof. Mark Peyrot con l’esposizione dei risultati del progetto DAWN(Diabetes Attitude Wishes and Needs): “Results and implications of the DAWN project”.

Si tratta di uno studio osservazionale effettuato su oltre 5000 pazienti diabetici adulti e oltre 3500 sanitari che si occupano di diabete (2500 medici e 1000 infermieri professionali), svolto in 13 nazioni in Asia, Australia, Europa e Nordamerica.

L’obiettivo primario dello studio era quello di identificare gli ostacoli al raggiungimento di validi risultati di cura, mentre quello secondario era di individuare eventuali possibili strategie per superare questi ostacoli. Va subito dichiarato che i risultati ottenuti dimostrano che l’appropriatezza della cura nei pazienti diabetici risulta essere molto lontana dall’ottimale.

I curanti riconoscono questi insuccessi e sono convinti che il maggior contributo all’insuccesso dell’aderenza alla cura da parte del paziente sia riconducibile ai suoi problemi psicologici. E ancora i curanti dichiarano di non possedere le risorse necessarie ad affrontare questi problemi di natura psicologica del paziente. La possibilità di accesso alle cure per i diabetici come la qualità del rapporto curante-paziente è considerata generalmente buona ma entrambe sentono la mancanza di “team” di cura integrati. Se la possibilità di accesso a centri di cura di alta specializzazione è stata associata al raggiungimento di migliori esiti della cura stessa, è anche vero che è risultato che i pazienti con maggiori necessità (maggiori svantaggi socio-economici o diabetici pluricomplicati) sono quelli che hanno le minori possibilità di accedere ai livelli specialistici più elevati.

Da ultimo, si sono rilevati notevoli ostacoli psicologici all’intensificazione della cura soprattutto in pazienti con diabete tipo 2. Molti pazienti, ma anche molti medici, non sono convinti che i farmaci antidiabetici possano migliorare i risultati della cura e tendono ad evitare i farmaci fintanto che non diventano assolutamente indispensabili.

Questi risultati suggeriscono la necessità di dover porre maggior attenzione ai problemi psicosociali dei pazienti, oltre a dover promuovere una maggior informazione sull’efficacia ed il corretto uso dei farmaci antidiabetici all’interno dei team di cura, oltre ai potenziali vantaggi e ricadute di un miglior controllo metabolico.

Lo studio DAWN ha quindi stimolato uno sforzo internazionale per sviluppare iniziative che possano portare a questi risultati, inclusa la creazione di linee guida per affrontare i problemi psicosociali nella cura del Diabete, incrementando anche la partecipazione di figure professionali infermieristiche nel Team diabetologico.

Dati che fanno riflettere! Ma le possibilità di riflessioni non sono ancora terminate come non è ancora terminata la possibilità di incontrare ulteriori ostacoli al raggiungimento di un buon compenso.

Diabete e depressione
Si procede quindi con l’esposizione dell’ultima relazione, presentata dal Prof. Frans Pouwer: “Rates and risks of co-morbid depression: a community-based study”.

Da molto tempo è dato osservazionale comune che fenomeni depressivi sono comuni in pazienti con diabete tipo 2. Già nel XVII secolo il famoso medico inglese Thomas Willis (1621-1675) aveva notato che il Diabete spesso insorgeva in pazienti che avevano subito particolari eventi di vita stressanti o che erano afflitti da profonda tristezza oppure avevano sperimentato lunghi periodi di dolore fisico; ma una chiara relazione fra diabete e sindrome depressiva non è mai stata documentata. Va rilevato però che la maggior parte degli studi di prevalenza esistenti non sono confrontabili e che possono inoltre soffrire di errori di campionamento in quanto condotti in ambienti già di per sé selezionati.

Se non è stata documentata una relazione fra diabete e depressione, risulta indubbio che quest’ultima può pesantemente condizionare l’evoluzione del diabete riducendo la qualità di vita del paziente, ne impoverisce la cura della persona, peggiora il controllo glicemico e l’evoluzione delle complicanze presenti, oltre a favorire l’insorgenza di nuove. E in ultima analisi aumenta il fabbisogno di cure oltre ad aumentare i costi.

È dimostrato, d’altra parte, che la depressione può essere efficacemente curata nel diabetico con miglioramento degli esiti di cura anche sul diabete stesso.

L’Autore presenta i risultati di uno studio effettuato in un comune con selezione random di 3107 adulti di entrambe i sessi e di età compresa fra 55 e 85 anni. La diagnosi di depressione veniva effettuata con i criteri del CES-D e quella di diabete sulla base dei dati forniti dal medici di base.

I soggetti risultati essere affetti da diabete tipo 2 è risultata essere del 7% in accordo con i dati nazionali per quelle fasce di età e la percentuale di pazienti diabetici con depressione è risultata essere del 8% contro una percentuale di non diabetici con depressione del 9% dati in accordo con la letteratura esistente.

Valutando però la presenza di depressione in diabetici tipo 2 con una complicanza presente è risultato: 30% per diabete e stroke; del 19% per diabete e cardiopatia e del 16% per diabete e arteriopatia periferica. La prevalenza di depressione è quindi risultata essere aumentata nei diabetici con una complicanza ma non nel solo diabete tipo 2.

Valutando i vari fattori di rischio per depressione in questa popolazione di diabetici è risultato: il sesso femminile; l’essere single; la limitazione funzionale dovuta ad una complicanza del diabete e da ultimo la caratteristica di mostrare un “locus of control” di tipo esterno.

Del tutto aperto rimane il problema se la depressione possa costituire un fattore di rischio per diabete tipo 2 o viceversa ed è indubbio che sono necessari studi prospettici per chiarire le relazioni fra depressione e diabete, ma i dati a disposizione sono già sufficienti per stimolare i clinici a cercare di individuare quei gruppi di pazienti che presentano un rischio aumentato e porre in atto programmi di trattamento e di prevenzione.

Come dire che ogni ostacolo può essere anche visto come un’opportunità!
Molto abbiamo da fare!

Buon lavoro a tutti

Torna al sommario