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INCONTRO CON L’ESPERTO
Il diabete nell'anziano

 

Le caratteristiche della popolazione occidentale, ma soprattutto di quella italiana, stanno mutando rapidamente. L’aumento dell’aspettativa di vita si accompagna all’incremento della prevalenza degli anziani (età >65 anni) tra la popolazione diabetica (dal 6,5 al 9,1% tra il 1988 e il 2000), come ha dimostrato il Casale Monferrato Study (2007). Una popolazione “fragile” che ci pone di fronte alla necessità di costruire modelli assistenziali adeguati. Gualtiero de Bigontina (Belluno) ha introdotto con queste parole l’incontro, moderato da Luigi Gentile (Asti) e Rossella Iannarelli (L’Aquila), e dedicato alla malattia diabetica nella terza età, proponendo una fotografia dell’assistenza diabetologica in questa popolazione grazie ai dati derivati dagli Annali AMD 2007.

La tecnica con cui è stato affrontato il tema è figlio della “metodologia della qualità”, che si propone di identificare le criticità, raccogliere i dati e confrontarli con gli standard. Gli Annali, prodotti da AMD, sono uno strumento preziosissimo in questo senso, che fornisce gli indicatori di qualità dell’assistenza diabetologica in Italia; tale fotografia della “situazione reale” può così essere confrontata con gli Standard italiani per la cura del diabete mellito, altro eccellente prodotto della diabetologia nazionale che riporta la “situazione ideale”. Dagli Annali emerge come la popolazione anziana rappresenti il 62,6% della popolazione assistita dai Centri (>75 anni = 24,7%), e che il numero medio di visite annuali cui viene sottoposta, anche dopo stratificazione per il tipo di trattamento, non si discosta in maniera rilevante dalla media della popolazione generale (Figura 1).

Figura 1
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Già questo elemento lascia trasparire come la risposta assistenziale tenda a prevedere una scarsa differenziazione in base alle caratteristiche anagrafiche della popolazione. Per quanto riguarda gli indicatori di processo considerati, la raccomandazione a effettuare lo screening delle complicanze (livello IV, forza B) viene seguita in maniera simile, rispetto alla popolazione generale (con le stesse lacune relative al controllo annuale del piede):

 

>65 anni

pop. generale

HbA1c >1volta/anno

84%

84%

Profilo lipidico >1volta/anno

61%

59%

PAO >1volta/anno

65%

62%

Microalbuminuria >1volta/anno

51%

47%

Controllo piede >1volta/anno

21%

21%

Diversa la situazione per gli indicatori di esito intermedio, per i quali la popolazione anziana risulta maggiormente penalizzata:

Obiettivo

>65 anni

pop. generale

livello

forza

HbA1c 6,5-8,5%

56%

73%

IV

B

LDL-col </= 130mg/dl

30%

69%

I

A

PAO </=140/80mmHg

44%

61%

I

A

In merito all’obiettivo pressorio, i valori diastolici risultano più spesso “a target” di quelli sistolici, che non vengono raggiunti da una quota pari a circa il 45% degli anziani (con valori anche più elevati tra i pazienti in terapia antipertensiva). La prevalenza di obesità negli ultrasessantacinquenni è del 35% circa (vs. 39%), e quella dei fumatori del 14% (vs. 18%). Dovendo stilare una graduatoria dell’efficacia della terapia, il primo posto è occupato dai valori di pressione sistolica, seguiti da quelli di HbA1c e da quelli di colesterolemia LDL, mentre per l’efficacia di processo l’emoglobina glicata occupa la posizione di vertice, e il controllo del piede un desolante e lontano fanalino di coda. Le criticità identificate grazie al prezioso contributo degli Annali, tramite il confronto con gli Standard, devono portare a valutare la possibilità di apportare azioni migliorative nell’assistenza erogata.

Rossella Iannarelli (L’Aquila) ha poi presentato un’originale analisi dei dati relativi alla prevalenza di obesità e diabete mellito nei pazienti anziani trattati con antipsicotici di seconda generazione (SAGs) nella provincia dell’Aquila. Da qualche anno, gli antipsicotici prodotti successivamente al 1989 hanno dimostrato di esercitare effetti sfavorevoli sul metabolismo, con un importante azione diabetogena, di induzione d’incremento del peso e di modificazione del profilo lipidico in senso aterogeno (aumento di LDL e trigliceridi, riduzione dell’HDL); questi effetti fanno da contraltare alla minore incidenza di effetti collaterali motori e alla maggior efficacia sui sintomi negativi cognitivi e affettivi di queste molecole, rispetto ai farmaci tradizionali. Tra le molecole più coinvolte la clozapina e l’olanzapina, ma anche il risperidone. Questa categoria di farmaci, non impiegata di frequente nella popolazione anziana comunitaria (non esistendo studi clinici relativi a questa fascia d’età), risultano prescritti con ampia generosità presso le RSA (65% dei degenti), e il loro impiego correla in maniera significativa con i valori glicemici e insulinemici di post-carico, così come con i parametri di resistenza insulinica; è quanto emerge dall’analisi relativa a 1415 soggetti esaminati nell’audit della relazione (età media: 65 anni). L’obesità stimata in questa popolazione (24,5%) risulta nettamente più frequente di quella della popolazione di controllo (5%), analogamente a quanto si verifica per la presenza di diabete (38,3 vs. 7%). I meccanismi responsabili dell’aumento di peso associato agli SGAs non sono noti, ma sembrano coinvolti i centri della regolazione dell’appetito e dell’introduzione alimentare.

La relazione successiva, presentata da Patrizio Marnini (Varese), ha trattato il tema delle criticità delle ipoglicemie severe negli anziani, soggetti che possono rispondere più tardivamente e in maniera difettosa agli abbassamenti della glicemia, per valori tali da creare rischio di danni cognitivi. Lo studio si riferiva agli 8461 soggetti ricoverati presso l’UO di Geriatria dell’Osp. di Circolo di Varese, il 23% dei quali affetti da diabete. La probabilità di ricovero per ipoglicemia si associava a bassi livelli di scolarizzazione e di inserimento sociale. Marnini ha evidenziato come nel 10% circa dei casi i soggetti fossero asintomatici fino a poco prima dello sviluppo di alterazioni della coscienza, a testimonianza dell’importante riduzione della soglia glicemica di controregolazione in questi soggetti. Per quanto riguarda la terapia assunta prima del ricovero, relativamente pochi erano i soggetti in terapia insulinica (non si hanno dati sull’impiego di analoghi rapidi), così come quelli trattati con ipoglicemizzanti a breve durata d’effetto, come le glinidi (Figura 2).

Figura 2
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Altri elementi interessanti sono quelli relativi all’elevata frequenza di infezioni in atto (63%) e alla bassa percentuale di soggetti in follow-up specialistico (22%), così come in autocontrollo glicemico domiciliare. Nel 26% dei casi si è osservato un deficit neurologico focale, che nel 5,5% dei casi è risultato irreversibile. Tra le criticità emerse, la constatazione di come le ipoglicemie nell’anziano siano probabilmente sottostimate, e vi siano bassi livelli di informazione, nei pazienti e nei loro familiari, sui sintomi,la prevenzione e il trattamento dell’ipoglicemia.

Tali elementi si collegano alle considerazioni di De Bigontina, e spingono alla necessità di riconsiderare il modello assistenziale nell’anziano; questo è stato anche il tema principale dell’intervento di Luigi Gentile (Asti), che ha portato il punto di vista del diabetologo. Probabilmente, più che di “diabete senile” dovremmo parlare di “diabetici invecchiati” (popolazione abituata alla patologia, che non pone particolari difficoltà di gestione se non una adeguata revisione degli obiettivi terapeutici) e di “anziani divenuti diabetici” (i soggetti con i maggiori problemi). Gli Standard Italiani non propongono fondamentali differenze gestionali nei confronti della popolazione generale, anche se sempre più spesso si sente parlare di “complicanze emergenti (declino cognitivo, demenza, disabilità fisica, cadute, fratture). Spesso l’anziano è un individuo fragile, che riesce momentaneamente a mantenere una condizione di equilibrio instabile, e a essere autonomo, facendo ricorso a tutte le riserve funzionali del proprio organismo, e dell’ambiente sociale in cui vive. Per affrontare le difficoltà assistenziali tipiche di questa popolazione è necessario acquisire strumenti che ci possono essere forniti dalla Geriatria. Le evidenze giustificano il ricorso allo screening della popolazione anziana per quanto riguarda la presenza di diabete, mentre esistono aspetti peculiari da considerare nei temi legati alla prevenzione (prescrizioni dietetiche e di attività fisica, impiego di farmaci). Quello che appare fondamentale è l’individualizzazione degli obiettivi, sulla base delle condizioni fisiche e cognitive del singolo paziente. Per quanto riguarda, infine, l’applicazione delle raccomandazioni nella pratica clinica, Gentile ha fatto cenno alla Valutazione Geriatrica Multidimensionale, strategia sviluppata in clinica geriatrica per pianificare l’assistenza socio-sanitaria, e all’importanza di lavorare in team.

L’ultimo intervento è stato dedicato al punto di vista del geriatra, presentato da Silvio Raspo (Cuneo). Dopo un’introduzione dedicata ad alcuni dati epidemiologici e all’approccio tipico della sua specialità (l’importanza di considerare l’anziano complessivamente, con le sue multipatologie e multitrattamenti, nell’ambito del contesto ambientale specifico), Raspo ha dato una definizione della fragilità dell’anziano (derivante dalla riduzione dell’omeostasi di tutti i processi funzionali organici e delle riserve socio-ambientali), che impone di riconsiderare “al ribasso” gli obiettivi terapeutici per minimalizzare il rischio di complicanze acute (ipoglicemia, iperosmolarità, disidratazione, ipotensione arteriosa) (Figura 3 e Figura 4).

Figura 3
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Figura 4
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Ha poi presentato il modello adottato presso l’ASO di Cuneo, sotto la denominazione di Unità di Valutazione Geriatrica Ospedaliera e composta da un geriatra, un infermiere professionale e un assistente sociale, tra i cui compiti c’è quello di programmare (su richiesta dei Reparti) la rete assistenziale successiva alla dimissione dal nosocomio. Ha concluso affermando come il paziente anziano diabetico, soprattutto se fragile, richieda non solo una adeguata preparazione medica, ma anche e soprattutto grande “buon senso” clinico-terapeutico, con l’obiettivo di trovare il miglior compromesso tra ciò che dovrebbe essere fatto e ciò che realisticamente può essere proposto grazie a una rete di servizi ben organizzata e molto flessibile.

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