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SIMPOSIO CONGIUNTO AMD-SIIA
Diabete e ipertensione nelle nuove linee-guida 2007 ESH/ESC

Il simposio congiunto AMD-SIIA (Società Italiana dell’Ipertensione arteriosa) ha fornito l’occasione per analizzare le caratteristiche delle nuove linee-guida europee sulla diagnosi e il trattamento dell’ipertensione arteriosa redatte congiuntamente dall’ESH (European Society of Hypertension) e dall’ESC (European Society of Cardiology), la cui versione integrale è stata pubblicata sul Journal of Hypertension, sull’European Heart Journal e su www.eshonline.org.

L’attenzione nasce da un dato epidemiologico incontrovertibile di stretta associazione tra la malattia diabetica e l’ipertensione  come ben evidenziato negli Annali AMD 2007 che, come ha ricordato Giorgio Grassi  (Torino) descrivono una realtà clinica dove il 68,8% dei diabetici di tipo 2 ed il 38% dei diabetici di tipo 1 presentano una pressione arteriosa superiore a 130/85 mmHg tra i soggetti non classificati come ipertesi, mentre tra i oggetti in trattamento ipertensivo troviamo il 64,5% di diabetici tipo 2 ed il 69,9% di diabetici tipo 1 che, sebbene trattati non raggiungono l’obiettivo di valori inferiori a 130/85 mmHg, restando nella categoria ora definita normale alta (vedi tabella 1). La criticità del dato è direttamente proporzionale al rischio cardiovascolare generato dall’associazione di questi due fattori e dal non raggiungimento degli obiettivi terapeutici in una percentuale elevata di soggetti.  Un altro aspetto che emerge dagli studi osservazionali sul paziente diabetico (studio DAI) e sul quale le nuove linee-guida fanno nuovamente il punto è la terapia, considerando che il 36% dei pazienti ipertesi  è in trattamento con un  farmaco, il 23% con due, il 7% con tre e meno del 2% dei pazienti viene trattato con più di tre farmaci. Inoltre la popolazione diabetica Italiana presenta un numero elevato di soggetti in soprappeso con circonferenza vita superiori al limite indicato nella definizione di sindrome metabolica ora recepita anche dalle linee guida ESH/ESC. Questi aspetti ed altri ancora rendono ragione del forte interesse dei medici diabetologi ed integrare nelle strategie di intervento le nuove indicazioni fornite dalle nuove linee guida oggetto del simposio.

Come nella versione precedente (del 2003), il documento fornisce la definizione e la classificazione delle condizioni di normotensione e di ipertensione, sulla base dei valori pressori sistolici e diastolici. A seconda dell’entità d’incremento dei valori pressori (sistolici e/o diastolici), l’ipertensione viene in tal modo suddivisa nei gradi 1, 2 e 3 (vedi Tabella 1).

Tabella 1. Definizione e classificazione dei livelli (mmHg) di pressione arteriosa (PA)

Categoria

Sistolica

 

Diastolica

Ottimale

<120

e

<80

Normale

120-129

e/o

80-84

Normale alta

130-139

e/o

85-89

Ipertensione di grado 1 (lieve)

140-159

e/o

90-99

Ipertensione di grado 2 (moderata)

160-179

e/o

100-109

Ipertensione di grado 3 (grave)

>/=180

e/o

>/=110

Ipertensione sistolica isolata

>/=140

e

<90

Nelle linee-guida, presentate dal Prof. E. Agabiti Rosei (Brescia) vengono considerati valori soglia differenti per i livelli tensivi a seconda del tipo di rilevazione (clinica, relativa alle 24 ore o domiciliare), sottolineando contemporaneamente l’importanza della variazione circadiana dei valori pressori (e in particolare della riduzione dei livelli notturni, che distingue i soggetti dippers da quelli non-dippers) nella determinazione del rischio cardiovascolare. Viene inoltre dato rilievo al ruolo del monitoraggio pressorio delle 24 ore, cui ricorrere soprattutto in caso di variabilità elevata dei valori pressori in visite diverse, quando si sospetta un’ipertensione “da camice bianco”, un’ipertensione “clinica” isolata (con valori domiciliari normali) o un’ipertensione “mascherata”, nonché in gravidanza o per evidenziare episodi ipotensivi (anche in corso di terapia). Secondo gli esperti, infatti, i valori delle 24 ore correlano maggiormente con il danno d’organo o con lo sviluppo di eventi, rispetto alla pressione clinica. Parimenti, viene valorizzato il ruolo della rilevazione della pressione domiciliare, anche allo scopo di monitorare gli effetti della terapia e migliorare la compliance del paziente.

Tra gli esami diagnostici routinari da considerare nel soggetto valutato per ipertensione, particolare attenzione è dedicata alla valutazione della funzione renale (mediante la determinazione della creatininemia, il calcolo del filtrato glomerulare e la ricerca della microalbuminuria) e quella del metabolismo dei glucidi, consigliando l’effettuazione di un test da carico con glucosio in caso di glicemia basale >102 mg/dl (per escludere la presenza di una condizione di pre-diabete o di diabete). Attraverso l’esecuzione di indagini strumentali viene poi enfatizzato il ruolo della definizione dell’eventuale danno d’organo presente (cardiaco, cerebrale, vascolare e/o renale). Alcuni di questi esami sono ormai entrati nella routine (ECG, ecocardiogramma, ecoDoppler carotideo e valutazione del fundus oculi – anche come marker della funzione vascolare cerebrale), mentre altri restano per ora riservati alla ricerca (valutazione della struttura del tessuto cardiaco e vascolare, disfunzione endoteliale, distensibilità arteriosa).

Un concetto di estrema importanza che emerge dalle linee-guida ESH/ESC è quello della valutazione del rischio cardiovascolare complessivo, analizzando i fattori di rischio (età, sesso, consuetudine al fumo, anamnesi familiare, parametri antropometrici e metabolismo glico-lipidico), i marker di danno d’organo subclinico (segni elettrocardiografici e/o ecocardiografici di ipertrofia ventricolare sinistra, indizi d’ispessimento della parete carotidea e parametri di funzionalità renale) nonché la presenza concomitante di patologie cardiovascolari, renali, di sindrome metabolica o di diabete. Sulla base di tali fattori è possibile quantificare il rischio di eventi vascolari fatali nell’arco di 10 anni come basso, moderato, elevato e molto elevato (vedi Tabella 2). La definizione di ipertensione (e quindi la soglia del suo trattamento) diventa in tal modo flessibile, dipendendo non solo dai valori pressori in senso stretto.

Tabella 2. Soggetti a rischio cardiovascolare elevato o molto elevato

  • PA sistolica >/=180 mmHg e/o diastolica >/=110 mmHg
  • PA sistolica >160 mmHg con valori diastolici bassi (<70 mmHg)
  • Diabete mellito o sindrome metabolica
  • 3 o più fattori di rischio cardiovascolare
  • Uno o più marker di danno d’organo subclinico:
    • evidenza elettrocardiografica (in particolare sovraccarico ventricolare)
    • ecocardiografica di ipertrofia ventricolare sinistra (di tipo concentrico)
    • evidenza ultrasografica di ispessimento della parete arteriosa carotidea o di placche ateromasiche
    • ridotta distensibilità arteriosa
    • moderato incremento della creatinina serica
    • riduzione del filtrato glomerulare stimato o della creatinina clearance
    • microalbuminuria o proteinuria
  • Malattie cardiovascolari o renali conclamate

Il principio guida della “soglia flessibile” è innovativo e assai importante per le linee-guida ESH/ESC 2007: a seconda dei fattori presenti in grado di influenzare la prognosi e che partecipano a determinare il rischio cardiovascolare, viene stabilita la modalità di trattamento (modificazione dello stile di vita e/o intervento farmacologico) e il target pressorio.

I risultati degli interventi non farmacologici (incremento dell’attività fisica, abolizione del fumo, calo ponderale attraverso modificazioni dietetiche, riduzione del consumo di alcolici, del sale e dei grassi saturi, con aumento dell’apporto di frutta e verdura) sono spesso di entità modesta, o di accettazione transitoria da parte del paziente.

La flow-chart proposta dalle linee-guida europee schematizza i criteri di scelta tra monoterapia e terapia di associazione, nonché i diversi step da seguire sul tentativo di raggiungere l’obiettivo pressorio. Il documento sottolinea la frequente necessità di ricorrere a una terapia di associazione, che presenta i vantaggi di una maggiore efficacia unita a una migliore tollerabilità (nel rispetto delle indicazioni e delle controindicazioni d’impiego). Il criterio principale che deve guidare la scelta di una terapia di associazione è la complementarietà dell’azione antiipertensiva dei farmaci della combinazione (vedi Figura 1).

Al diabete e alla sindrome metabolica, le linee-guida riservano particolare attenzione, riconoscendo il rischio cardiovascolare globale particolarmente elevato che caratterizza il binomio clinico diabete mellito di tipo 2/ipertensione; in questi soggetti viene enfatizzata l’importanza della valutazione del danno d’organo, insieme alla necessità di instaurare un trattamento farmacologico anche per valori pressori nel range normale-alto (130-139 di sistolica e/o 85-89mmHg di diastolica), con un “goal pressorio” ambizioso (<130/80 mmHg). Per raggiungere questo obiettivo possono essere impiegati tutti i farmaci di comprovata efficacia e tollerabilità, e risulta spesso necessario ricorrere a una terapia di associazione.

Come nel diabete, anche nei pazienti con sindrome metabolica le soglie e gli obiettivi pressori di trattamento risultano sensibilmente inferiori, rispetto a quelli che caratterizzano il paziente iperteso complicato. I pazienti affetti dalla sindrome dovrebbero essere sottoposti ad accurata valutazione del danno d’organo; per quanto riguarda la terapia, le linee-guida ESH/ESC 2007 consigliano di ricorrere all’impiego dei spartani, associati (se necessario) a calcioantagonisti o a diuretici tiazidici a basse dosi.

Proprio la sindrome metabolica, riportata alla ribalta dalle nuove linee-guida europee, è stata l’oggetto della relazione di Luca Scaldaferri (Padova). La sindrome, nel 2005-2006, era stata al centro di numerose polemiche, nonché tema del programma di formazione DOCET-SM di AMD. Il contrasto tra American Heart Association (AHA), American Diabetes Association (ADA) e International Diabetes Federation (IDF) partiva da un punto condiviso: alcuni fattori di rischio cardiovascolari tendono ad aggregare in uno stesso individuo. I diabetologi americani (in contrasto con l’IDF) argomentavano, tuttavia, che:

  • la sindrome metabolica è definita in modo impreciso;
  • la patogenesi è incerta;
  • il suo valore di marker di rischio cardiovascolare è discutibile.

L’AHA, pur sottolineando i punti 1) e 2), concludeva che, da un punto di vista clinico, la sindrome metabolica aiuta comunque a identificare soggetti ad aumentato rischio di malattia cardiovascolare, peraltro in antitesi con diversi studi che avevano già dimostrato la maggior predittività in tal senso dei calcolatori del rischio. Chiave di volta del documento dell’AHA è che la sindrome rappresenta un indicatore più generale di maggior rischio relativo per malattia cardiovascolare, portando con sé un elevato rischio lifetime (a 20-30-40 anni!) anche quando il rischio assoluto (a 10 anni, principalmente determinato dai fattori di rischio tradizionali) è nel range basso-moderato. È quanto ribadiscono le linee-guida ESH/ESC: in presenza di sindrome metabolica, il soggetto in esame ha un rischio che si va ad aggiungere a quello medio della popolazione di confronto, ovvero il rischio cardiovascolare assoluto può essere basso (si pensi a un giovane), ma quello relativo è aumentato, soprattutto se visto in termini evolutivi. Scaldaferri ha concluso il suo intervento ripensando alla parabola descritta da G. Reaven tra la “Banting Lecture 1988: Sindrome X” e l’articolo del 2005 “Metabolic Syndrome: Requiescat in Pace”, dicendo che gli tornavano alla mente alcuni versi di Vinicio Capossela: “Se lo portaron al camposanto, senza rimpianto, se lo portaron seduto in trono, quattro becchini al passo lento del perdono, due passi avanti, tre passi indietro”. “Se mai arriverà al cimitero,” ha detto Scaldaferri, “la sindrome metabolica ci giungerà seduta in trono”.

L’occasione del simposio congiunto ha permesso inoltre di ascoltare una lucida sintesi dei risultati del recente trial ADVANCE, da parte del Prof. Bruno Trimarco (Napoli). L’ampio trial clinico multicentrico aveva l’obiettivo nel braccio in doppio cieco di dimostrare che una più intensiva riduzione della pressione arteriosa con l’utilizzo di una associazione precostituita fissa ACE-inibitore-diuretico (perindopril, indapamide) sia in grado di ridurre il rischio di  endpoint combinato di ictus, infarto miocardio e morte cardiovascolare e di ridurre il rischio di nefropatia di nuova insorgenza o di peggioramento e di retinopatia diabetica. Lo studio prevede inoltre, in un secondo braccio in aperto che dovrebbe essere ultimato nel 2008, la valutazione  dell’effetto del controllo intensivo della glicemia con  la gliclazide  in formulazione a rilascio controllato verso trattamento ipoglicemizzante secondo l’attuale pratica clinica con target di Hba1c inferiore al 6,5% sui medesimi endpoint.

I soggetti reclutati per lo studio si presentavano come diabetici di tipo 2, con la presenza di almeno un altro fattore di rischio cardiovascolare e con un ampio spettro di valori tensivi risultanti in una pressione arteriosa media di 145/81 mmHg: il 69% di essi era già in trattamento, rappresentando quindi un  campione di soggetti per i quali è importante avere prove di efficacia di un’ulteriore riduzione dei valori di pressione arteriosa. Al termine dello studio, dopo un follow-up medio di 4,3 anni la pressione arteriosa nel gruppo in trattamento attivo era di 134,7/74,8 mmHg  confrontato con 140,3/77,0 nel gruppo di controllo.

L’utilizzo dell’associazione precostituita ACE-inibitore-diuretico permetteva di raggiungere, per quanto riguarda l’endpoint primario, una riduzione del 9% (Hazard ratio [HR] 0,91, IC 95% 0,83-1,00, p=0,027). La riduzione degli eventi macrovascolari e microvascolari non differiva in modo significativo; inoltre il rischio relativo di  malattia cardiovascolare si riduceva del 18% (HR 0,82, p=0,027). Questi risultati confermano come vi sia un beneficio addizionale a trattare valori di pressione arteriosa sistolica superiori a 145 mmHg nei pazienti diabetici e che i benefici sono analoghi in pazienti con o senza preesistente ipertensione, e il benefico risultava addizionale a quello prodotto da altra terapia preventiva cardiovascolari compresi gli ACE-inibitori.

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